Realtà in comunicazione

Testo critico

 

 

Primo classificato “Ambiente Italia” XIV edizione del Toscana Foto Festival – Massa Marittima 2006

 

Pubblicato su “Gente di Fotografia” n°43

Il panorama fotografico italiano contemporaneo è schiacciato tra due tendenze che rispondono ad altrettanti schematismi culturali: da un lato una concezione rigida connessa al fotoreportage, basata sulla discutibile e limitata idea che la fotografia raffiguri o, peggio, documenti la realtà, da un altro un’ossessione tecnicistica nei confronti di uno sperimentalismo trendy, e vacuamente estetizzante, che intende snobisticamente collocare la fotografia solo nell’ambito di noti, e già vecchi, clichè ravvisabili ormai da anni nelle biennali d’arte contemporanea. In questa situazione inflessibilmente tiranneggiata dalla diarchia messa in atto dall’ambiente propriamente fotografico e dal sistema dell’arte contemporanea, il vero studio poetico/espressivo, l’autentico lavoro concettuale sulla fotografia come forma creativa libera è affidato a pochi volenterosi, indipendenti e lungimiranti soggetti che intendono percorrere sentieri autonomi, non condizionati da mode o stereotipi consolidati. Uno di questi è senza dubbio il lucchese Samuele Bianchi, il quale da diversi anni porta avanti un lavoro di estremo rigore intellettuale e formale. Il suo punto di partenza sembra essere molto chiaro: la fotografia è una disciplina che permette la concretizzazione sul piano artistico di una visione esistenziale che non contempla la nozione di rappresentazione meccanicistica del reale. Le immagini di Samuele Bianchi non danno certezze, non illustrano la realtà. All’opposto, alimentano vertiginosamente i dubbi, e comunicano sensazioni al fruitore tramite il procedimento dell’evocazione, non della mera, arida, riproduzione. Partendo da questo presupposto, l’autore toscano si concentra non sulla questione del soggetto da riprendere e neanche sulla frustrante e mortificante fissazione (tutta italiana) del contenuto. Il fulcro della sua fotografia è situato nel problema, forse irrisolvibile, della scelta del fotografo, e dunque all’interno dell’incognita dello sguardo. Nel caso specifico, Bianchi opera grazie a una sorta di principio dei vasi comunicanti. Non è esclusivamente il mondo che influenza il suo sguardo. E’ vero anche l’esatto contrario, e cioè che l’autore proietta tramite il dispositivo ottico il suo pensiero sui segni della realtà. Tale concezione sgombra il campo da qualsiasi banale narcisismo imperante nel mondo fotografico (togliendo di mezzo l’idea secondo cui esistano “fotografi bravi”) e pone Bianchi in una dimensione concettuale che trasporta l’azione creativa sul piano della filosofia delle immagini, piuttosto che su quello del fare “belle” fotografie, o peggio ancora interessanti. Con il suo recente lavoro, il fotografo lucchese oltretutto smonta uno dei luoghi comuni secondo cui, per dare profondità a un lavoro fotografico, non si possa che esplorare ciò che è lontano, “altro”, da noi. Samuele Bianchi ha puntato il suo sguardo/pensiero permeabile sul territorio che lo circonda, sulle strade e sui palazzi della sua esistenza giornaliera, nella convinzione che non possa che sussistere viaggio più impressionante e straniante di quello che effettuiamo nel nostra presunta realtà (che pensiamo di conoscere e dominare). Agendo come una sorta di periscopio anarchico, Bianchi ha “prelevato” frammenti opposti/speculari di reale negando l’assolutezza della scelta dello sguardo e producendo “immagini doppie” che rendono culturalmente complessa la questione dell’intervento dell’artista sui luoghi visibili. Il suo spazio di azione è in sostanza quello dei significanti e non quello dei significati, le sue opere destabilizzano e non stabilizzano. Samuele Bianchi prende le distanze dall’emozione pura e rassicurante determinata dalla selezione dell’inquadratura per riflettere su quanto è stato escluso proprio dal suo gesto creativo. In tal senso, la sua posizione fisica nello spazio perde di valore poiché diventa insignificante la questione del “trovare” qualcosa tramite gli occhi. Con questo comportamento, certamente tutto intellettuale, l’autore elabora un tipo di fotografia apparentemente fredda, ma in verità sconvolgente, che si autoedifica, che si proietta autonomamente nella psiche del fotografo, il quale sua volta ricolloca la sua sfera interiore nella porzione di realtà prelevata. È proprio grazie a tale interpretazione dell’agire fotografico che Samuele Bianchi riesce a liberarsi dai laccioli degli schematismi espressivi e compositivi imperanti nell’universo della fotografia contemporanea per sostenere una poetica che pone il mezzo fotografico nel campo dell’articolato processo di comprensione dei rapporti tra l’essere umano e il concetto discutibile e consolatorio di oggettività.

Maurizio G. De Bonis

Direttore Cultframe – Arti Visive e Comunicazione

www.cultframe.com

 

 

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